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Il britpop in 10 album

“Se l’obiettivo del punk era sbarazzarsi degli hippy, il nostro obiettivo è sbarazzarci del grunge”. Quando Damon Albarn pronunciò queste parole nel 1993, l’Inghilterra si stava preparando a reclamare il suo posto in uno scacchiere musicale dominato da Seattle e dai Nirvana. Con il Britpop, profondamente legato alla politica e all’identità locale, il romanticismo inglese è riuscito a ritrovare il suo fascino. Ecco una panoramica di 10 dischi essenziali sul fenomeno.

Per comprendere l’importanza del britpop per la storia britannica bisogna, necessariamente, tener conto del contesto sociale, politico e musicale della Gran Bretagna dei primi anni ‘90. Mentre la cultura americana attraversava l’Atlantico con il suo pessimistico grunge, specchio di una generazione disillusa, il Regno Unito socialmente diviso della Thatcher conobbe new wave, acid house ed il fenomeno Madchester. Nella primavera del 1990, quando gli Stone Roses raccolsero 25.000 persone a attorno al palco di Spike Island, l’Inghilterra aveva già catturato la scena underground, guidata da una gioventù drogata in cerca di evasione. Il britpop nasce in questo contesto. Questa breve ma intensa tendenza venne rapidamente commercializzata e politicizzata in uno strano miscuglio di freedom spirit e orgoglio nazionale.

The La’s - The La’s (1990)

All’alba degli anni ‘90, questa band (formata nel 1983, seguita da frequenti cambi di line-up, tra cui Lee Mavers e John Power) pubblica un abbagliante album omonimo: l’unico album in studio che pubblicheranno. The La’s fu il risultato di 2 anni di perfezionismo accompagnato da un produttore di tutto rispetto, Steve Lillywhite, inviato dall’etichetta Go!Discs. Lee Mavers aveva si era già servito di grandi nomi come John Leckie e John Porter, produttore degli Smiths, ma senza grande esito. I The La’s fuorno più un concetto, o forse una ricerca spirituale, perseguita da Mavers piuttosto che una semplice band. Il cantante-chitarrista disprezzava le pop star e andava alla ricerca di un’alternativa personale da molto tempo. Per pagare i costi dello studio che si stavano accumulando, pubblicarono un singolo, There She Goes, una canzone perfetta che Mavers odiava, ma che sarebbe stato il loro più grande successo. Ecco allora che la Go!Discs pubblicò l’album nonostante il disaccordo della stessa band. Ancor prima che il britpop si diffondesse, il quartetto di Liverpool fece un po’ un revival di quelli che furono gli Swinging Sixties con un sound vicino al Mersey beat. Con le sue chitarre acustiche (Looking Glass) e un pop che prende a piene mani dagli Smiths (Way Out), l’album criticato da Mavers giunse in cima alle classifiche. Il perfezionismo ha i suoi limiti, tuttavia, e Mavers non è mai riuscito a pubblicare un secondo album, lasciando questo classico del britpop ai posteri.

Suede - Suede (1993)

I giovani accattivanti Suede esplosero in Gran Bretagna nel 1993. Un picco emotivo era già stato raggiunto a febbraio, durante i Brit Awards; Brett Anderson interpretò la magnifica Animal Nitrate, uno dei tre singoli (con The Drowners e Metal Mickey) pubblicato prima dell’album, che fece esplodere le vendite e fu una delle scintille primordiali per il fenomeno britpop. La stampa britannica prese rapidamente in mano il fenomeno quando i Suede (nome scelto da Anderson per la sua accattivante sonorità) avevano già una buona reputazione per le loro performance dal vivo. Lo stesso David Bowie, idolo di Anderson, si era innamorato di questa band incandescente nata a Haywards Heath che sembrava prendere il testimone, ormai polveroso, degli Smiths. Che a Brett Anderson piacesse o no, la produzione di Ed Buller abbonda di riverbero e tastiere, dando vita a capolavori contorti con cori accattivanti. In mezzo a la miriade di articoli sensazionalisti, la rivista Select esagerò, forse, scrivendo: “Yanks Go Home!” con un Brett Anderson in posa davanti all’Union Jack. Il londinese non era pronto a cedere alla chiamata di una carriera statunitense, cosa che artisti del calibro di Blur e Oasis accolsero a braccia aperte.

Blur - Parklife (1994)

Nell’aprile 1994, i Blur si ritrovarono di colpo al centro della scena grazie a Leisure (1991), seguito dall’acclamato Modern Life Is Rubbish (1993). Ma con Parklife diventarono gli esportatori ufficiali del britpop, portando il fenomeno a livello globale. Critica dell’inconsistenza americana, questo terzo album descrive la fine di uno strano secolo in 16 tracce; spaccati di una vita quotidiana agrodolce descritti con quell’ironia secca tipicamente britannica. Grazie al suo accento borghese e al volto angelico di Damon Albarn, ”i Blur sanno incantare il pubblico”, parafrasando Justine Frischmann delle Elastica. Registrato tra novembre ‘93 e gennaio ‘94 a Londra, Parklife è un patchwork pop di Beatles, Kinks e Human League, scritto su melodie acide (To the End), inebrianti (Girls & Boys) e i ruvidi accordi di Stephen Street, l’uomo dietro The Queen Is Dead e Meat Is Murder degli Smiths. Quando fu pubblicato, Damon Albarn, Graham Coxon (chitarra), Alex James (basso) e Dave Rowntree (batteria) diventarono il quartetto più popolare d’Inghilterra.

Oasis - Definitely Maybe (1994)

Sempre nel 1994, il britpop aggiunge un’altra corda al suo arco, questa volta in estate. Gli Oasis polverizzarono le classifiche con Definitely Maybe, alzando la posta con i singoli Supersonic, Shakermaker e Live Forever, pubblicati in primavera. Ingaggiati da Alan McGee sull’etichetta indipendente Creation Records, il cui marchio di fabbrica shoegaze iniziava a dare segni di stanchezza, gli Oasis registrarono scrupolosamente i loro primi sforzi, prima a Valley Monnow, con Dave Batchelor, poi con Mark Coyle e Noel Gallagher al timone in Cornovaglia. Le registrazioni furono poi affidate dall’etichetta a Owen Morris, che dovette accontentarsi di ciò che aveva: innumerevoli strati di chitarre sature con voci sovrapposte di Noel. Districando tutto con una tecnica nuova di zecca, il “brick walling”, Owen Morris fece miracoli. Riuscì a mantenere un suono potente e rozzo, dando all’album un suono live e un fascino particolare, rendendo tutto molto più chiaro. Scritto da Noel ed eseguito da Liam, Definitely Maybe ha delle rime molto semplici; “She’s sniffin’ in her tissue, sellin’ the Big Issue” (Supersonic). La poesia drogata della prima traccia sboccia nella disillusa dizione della seconda, presa in prestito da Ian Brown, a cui è devoto. Dopo una manciata di ballate liberatorie, i cui riff senza complicazioni attingono dal pop dei Beatles (Shakermaker, Live Forever) e dal glam degli anni ‘70 dei T. Rex (Cigarettes & Alcohol), mantenendo un rock dinamico (Bring It On Down), la band chiude l’album magnificamente con l’acerba Married With Children. Nessun segno di autoindulgenza qui, solo un convincente “I don’t care”. Da buoni mancuniani, fan del calcio e delle risse, i fratelli Gallagher sono diventati rapidamente il duo al negativo dei londinesi Blur.

Radiohead - The Bends (1995)

L’intera faccenda del britpop mi ha fatto incazzare di brutto. L’ho odiato. Sembrava arretrato e non volevo farne parte”. Per il 20° anniversario di OK Computer nel 2017, Jonny Greenwood e Thom Yorke hanno espresso la loro opinione senza compromessi sul britpop nella rivista Rolling Stone. Anche se non vogliono essere considerati come tali, il britpop è stata una reazione allo zeitgeist inglese degli anni ‘90 e, a questo proposito, i Radiohead si adattano sicuramente all’equazione. Come risultato del successo di Creep in Pablo Honey (1993), il quintetto di Oxford comincia a soffocare per l’eccessiva esposizione mediatica. Volendo allontanarsi da quelle chitarre ormai commerciali, in favore di un nuovo linguaggio musicale, Yorke e Greenwood si dilettano con folk ed elettronica, progettando un rock all’avanguardia. Il pop sperimentale di Björk (Debut, Post), le chitarre elettriche dei R.E.M., i sample di DJ Krush (Strictly Turntabilized o Meiso su Mo’Wax), il piano e la batteria di Bitches Brew di Miles Davis e dei Talking Heads sono tutte fonti di ispirazione che hanno alimentato il suono di The Bends. La EMI stava aspettando un capitolo successivo al singolo Creep, mentre i Radiohead si chiusero per nove mesi negli studi RAK di Londra, con il supporto di John Leckie che aveva da poco prodotto gli Stone Roses. Sotto pressione, le sessioni non ebbero successo. Greenwood faticava a trovare il suono giusto e la band non era capace di fare ordine tra la montagna di brani su cui stavano lavorando. La registrazione continuò all’Oxford’s Manor Studio dopo un tour di successo e fu poi mixato all’Abbey Road da Leckie. I brani solari spiccano in un repertorio più oscuro e sofferente. Un Yorke più sicuro di sé raggiunge vette più alte con la sua voce e la chitarra vigorosa di Greenwood ipnotizza fino all’intreccio di Street Spirit. Mentre gli araldi del britpop attingevano insaziabilmente dagli anni ‘60, i Radiohead stavano costruendo il futuro.

Supergrass - I Should Coco (1995)

“I Should Coco non assomigliava a nulla di quello che c’era in giro, gli Oasis sembravano sotto sedativi in confronto. Ma presto ci hanno buttato dentro il calderone britpop anche a noi” Questo è il punto di vista di Gaz Coombes oggi, che aveva solo 19 anni all’uscita dell’album di debutto dei Supergrass. Dietro questa sorprendente copertina si nascondeva uno dei più grandi album del decennio, con oltre 1 milione di copie vendute in tutto il mondo, metà delle quali nel Regno Unito. Il trio composto da Gaz Coombes, Danny Goffey alla batteria e Mick Quinn al basso, catturò l’attenzione della Parlophone dopo l’uscita del loro singolo Caught by Fuzz sull’etichetta indipendente Backbeat, e in 40 minuti il loro album di debutto incapsulò il pop punk psichedelico ereditato da The Kinks, The Rolling Stones, The Jam e Buzzcocks. Alright è il cavallo di battaglia di questo album da cui emerge una freschezza candida e incandescente. “We are young, we run green / Keep our teeth nice and clean / See our friends, see the sights / Feel Alright”, ripete Gaz. In contrasto con la profonda malinconia di Radiohead, Oxford offre un ringiovanimento elettrico.

Oasis - (What’s the Story) Morning Glory? (1995)

Liam got a Rolex. I got a Rolls Royce. Which is brilliant, cos I can’t drive and Liam can’t tell the time”. Comodi, in cima alle classifiche e sulle pagine patinate delle riviste, i megalomani fratelli Gallagher continuano la loro ascesa con (What’s the Story) Morning Glory? dopo aver raggiunto lo status di rockstar come promesso in Definitely Maybe (Rock’n’roll star). Alan White ha sostituito Tony McCaroll alla batteria mentre Owen Morris arriva alla produzione. Nonostante un grave alterco tra Noel e Liam, la registrazione viene completata velocemente. A partire da Hello, questo follow-up album è un susseguirsi di inni rock, tutti scritti da Noel, successi cult come Wonderwall, Don’t Look Back in Anger, Some Might Say e Champagne Supernova con un assolo di Paul Weller. Tra rock saturo, gemme pop e ballate scarne, Noel - che ha tenuto tutte le composizioni per sé fino a 2 settimane prima delle sessioni - ha superato se stesso. È un’opera più raffinata, più ricca e altrettanto forte, dal piano di Don’t Look Back in Anger alle corde di Wonderwall, fino all’armonica di The Swamp Song. Con 15 milioni di album venduti - risultato previsto da McGee - Morning Glory vide l’arrivo della Oasis-mania, da cui i Gallagher non riusciranno più a sottrarsi.

Pulp - Different Class (1995)

Il 1995 fu l’anno decisivo per il britpop. Era l’anno della pubblicazione di Different Class e del popolare Common People, in cui Jarvis Cocker scrisse del malsano fascino per la classe operaia esibita dalla donna greca su cui aveva posato gli occhi. Cocker e Pulp non erano nati nella britpop e in realtà esistevano da quasi venti anni prima. A Sheffield, nel 1978, Jarvis e la sua band pubblicarono dischi senza successo, senza mai trovare l’occasione d’oro. Con His ‘N ‘Hers (di cui Cocker non amerà mai la produzione), ma soprattutto con Different Class, il loro quinto lavoro, i Pulp vedono finalmente quel tracciato che li porterà lontano. Con uno sguardo duro sulla lotta di classe, l’album mescola pop inglese, proto-disco (Disco 2000), esperimenti sintetici della durata di 6 minuti (F.E.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E) e il glam rock di Bowie e Roxy Music, ingrediente perfetto e pronto all’uso per la raffineria del britpop. Dopo il rifiuto di Bill Brummond, fu allora Chris Thomas a prendere in mano la produzione, facendo magie, in particolare su Common People, brano che Cocker aveva abbozzato a cuor leggero su un piccolo registratore Casio. Estranei al mondo che li ascolta in quel momento, i Pulp, con i loro testi disorientanti e carichi di sensualità, divennero una voce senza filtri nel britpop e uno dei gruppi più acuti e affascinanti di questa strana epoca.

Suede – Coming Up (1996)

Mentre la scena era totalmente dominata da Blur e Oasis, i Suede facevano tutto il possibile per rimanere fuori da una sfera troppo ordinata per i loro gusti. Nonostante ciò, Brett Anderson pensa di averne fatto parte appieno. Dopo Suede (1993) e Dog Man Star (1994), la band di South London vide la partenza del chitarrista Bernard Butler che lasciò il gruppo in seguito a disaccordi durante le sessioni di registrazione, rompendo la dinamica a due con Brett Anderson. Indipendentemente da ciò, il pallido, snello e decadente alter ego di Jarvis Cocker, brilla con il grande successo Coming Up, dove spiccano le irresistibili Trash e Beautiful Ones, nonché i 7 minuti di pop romantico in The Chemistry Between Us, Filmstar e Lazy. Innegabilmente ispirato da Bowie e dal glam rock degli anni ‘70, questo terzo album si allontana dalla complessa oscurità dei precedenti dischi, sia per l’abbondanza di riff acuti che per i nuovi tocchi drammatici. Questo è un album che si incrocia al punk, con la sua copertina cult progettata da Peter Saville, che, insieme ai Joy Division, era l’eroe d’infanzia di Anderson.

The Verve - Urban Hymns (1997)

Che Bitter Sweet Symphony sia la quintessenza dei Verve non c’è dubbio. Ispirato dagli Stones, questo successo non ha portato molta fortuna alla band di Richard Ashcroft, a parte una denuncia per plagio da parte di Allen Klein, fondatore della ABKCO Records che rappresenta anche la musica di Jagger. I Verve avevano già i diritti d’uso di The Last Time dei Rolling Stones, ma Klein sentì che l’uso di quel campionamento andava molto oltre l’accompagnamento, così rivendicò le royalties integrali per il brano, lasciando a bocca asciutta i Verve davanti al loro singolo più commerciale. Ma Urban Hymns non è solo questo brano, anzi. In piena voga trip-hop, Ashcroft e gli altri membri dei Verve si diedero da fare con arrangiamenti capaci di dipingere elegantemente quell’immaginario malinconico inglese, punteggiato da soffici risvegli (Velvet Morning) che le droghe non sono in grado di addolcire (The Drugs Don’t Work). Dapprima shoegaze con A Storm in Heaven, poi funk in A Northern Soul, i Verve navigano bene a prescindere dal vento che tira. Tra il pop piacevole degli Oasis (Lucky Man, Weeping Willow) e il pop più pesante dei Radiohead (Space and Time), la band di Ashcroft conserva il suo bagaglio melodico, fatto di arrangiamenti bombastici e pedaliere in serie (The Rolling People), come testimoniano i 15 minuti di Come On/Deep Freeze. Pubblicato al tramonto del britpop, Urban Hymns fu un fugace ritorno di fiamma, pochi istanti prima della conclusione di un ciclo durato poco meno di un decennio. •