Manfred Eicher è tutt’altro che un eremita scollegato dalla realtà che borbotta tra i suoi baffi brizzolati. Non è nemmeno uno che vive all’epoca in cui la Fata Elettricità lavorava solo a mezza giornata, ma nel pieno del XXI secolo e, a detta sua, la musica non si è fermata a Kind Of Blue di Miles Davis, il suo disco feticcio… Semplicemente succede che, per il cervello e fondatore della ECM, esistono dei valori. Ancor più, rispetta e lustra questi valori ogni giorno di più, senza grandi proselitismi. Dopo oltre quarant’anni dalla creazione della sua etichetta (con il disco del pianista Mal Waldron intitolato Free At Last, “Libero, finalmente!”), il produttore di Monaco non vive fuori dal tempo, ma, più precisamente, in un tempo parallelo designato dalla società, dai mezzi di comunicazione o più stupidamente dal capitalismo, come l’unico possibile. Da dove viene questa ricerca della (falsa) novità a tutti i costi? Perché quest’urgenza perenne? Perché la musica (il rumore) continuamente e dappertutto, negli aeroporti, nei negozi, negli ascensori, nelle sale d’attesa, nei ristoranti? Perché abbiamo bisogno di un telefono cellulare? Eicher non fa caso alle imposizioni di un certo mondo, dominante di sicuro, e vive nel suo personale. In tranquillità. Serenamente. Un mondo nel quale, di fatto, non è solo, anzi. È oltremodo nota la adorazione dei fan di ECM per questa vita differente. Concepita in altro modo. Valutata attraverso altri parametri. Vissuta in modo diverso. Incontro con Manfred Eicher che vive semplicemente da uomo libero. Era scritto già sul primo disco ECM: free at last!
Qual era la tua idea del ruolo di produttore musicale prima dell’avventura ECM?
In principio, non avevo nessuna idea riguardo a questo mondo. Ammiravo certe persone come Teo Macero che aveva prodotto in concreto il meraviglioso Kind of Blue di Miles Davis. Apprezzavo anche il lavoro di Phil Ramone e di alcuni produttori della musica classica, ma non mi identificavo con nessuno di loro…
Soprattutto tenendo conto della tua formazione musicale. Violinista, poi contrabbassista…
È così, ancora oggi. Mi considero un musicista. Iniziai a studiare violino a sei anni. In seguito, verso i quattordici anni, scelsi il contrabbasso dopo aver sentito Paul Chambers suonare con Miles. Entrai a far parte della Filarmonica di Berlino e di altre formazioni classiche e suonai anche con musicisti jazz. Mi piaceva passare dall’universo della musica scritta al mondo della musica improvvisata. Non si trattava di immagazzinare incontri ed esperienze ma di vivere le mie passioni. Adoravo la musica da camera–crebbi con quella che i miei genitori ascoltavano, Schubert soprattutto– ma anche con il rock o il jazz di Miles e dei diversi trio di Bill Evans…
¿Come ebbe inizio tutto ciò?
In realtà, in maniera molto innocente. Ero semplicemente un musicista di formazione classica, che ascoltava musica classica e jazz e che scelse di abbandonare il contrabbasso per dedicarsi alla produzione e stare più vicino alla musica. Non volevo limitarmi ad un solo strumento. Nemmeno volevo viaggiare ai confini del pianeta come solista. Diventando un produttore, potevo avvicinarmi alla musica al fine di scolpirla. Uno scultore musicale. Però non accadde all’improvviso: quando incidevo come musicista d’orchestra, non riuscivo a stare lontano dal mixer per sentire quello che si stava registrando. Non ero mai soddisfatto del risultato. Da produttore, volli immediatamente incorporare al mio lavoro con i musicisti jazz l’idea, la filosofia e la concentrazione della musica da camera registrata. Chiarezza nell’approccio, nella dinamica stessa. Cosa che, allora, mancava nei dischi jazz. A quei tempi, questo era del tutto sconosciuto.
Ti ricordi del giorno in cui avesti tra le mani il primo disco della ECM, il disco di Mal Waldron? Fu come con un figlio?
Si intitolava Free At Last e rappresentava l’inizio di quello che volevo fare veramente. Indubbiamente, non fu così romantico come si racconta. Ma d’altra parte, avere tra le mani il prodotto finito, vedere la copertina… tutto riproduceva quello che volevo fare…
Il tuo approccio assomigliava e assomiglia tuttora, in un certo senso, a quello di un editore di libri piuttosto che a quello del direttore di un’etichetta musicale. Continuità estetica, supporto a lungo termine per i musicisti...
La lettura ed il cinema mi hanno sempre appassionato nella stessa misura. Adoravo il lavoro, in Germania, di editori come Suhrkamp Verlag o, in Francia, di Gallimard. All’epoca della nascita di ECM, non esisteva questa relazione prolungata tra musicista ed etichetta. In termini d’espressione di una lealtà a lungo termine. L’industria musicale impediva questa relazione di prossimità. La situazione è peggiorata ulteriormente con l’avvento dei professionisti del marketing nelle case discografiche, persone prive di formazione artistica. Chi sono i direttori delle case discografiche con i quali si può davvero parlare di musica oggi?
Ho l’impressione che, per te, ci sia stato un prima e un dopo “A Kind of Blue” di Miles Davis. Qual è stata l’evoluzione della tua relazione con questo disco?
Quando ascolto un’opera come Blue In Green, non posso fare a meno di ammirarne l’attitudine. È allo stesso tempo un ricordo musicale intenso, molto chiaro nella mia mente. Rappresenta il mio desiderio di allora. La mia meta. La mia vita sociale. È l’esempio perfetto della musica da camera come io la concepisco... L’approccio musicale di Kind Of Blue era una avanguardia in quel momento. Il suono era perfetto. E anche la musica, ovviamente...
Hai sottolineato l’importanza di una relazione duratura, anche lunghissima, tra l’autore ed il suo editore, relazione che, di fatto, tu mantieni con numerosi musicisti della ECM…
Non era il mio obiettivo principale, quello di creare relazioni forzatamente durature. Di sicuro possono esistere forti affinità, ma lo scopo è prima di tutto divertirsi. In quanto ai collaboratori, che si tratti di musicisti, di ingegneri del suono o di grafici, ho sempre avuto la fortuna di circondarmi di persone capaci di questo tipo di relazione. Possiamo continuare a lavorare assieme. Funziona in entrambi i casi. Questa continuità è per me molto importante, anche perché solo il tempo è capace di rivelare le sfumature, le qualità e il potenziale di un essere umano durante un’incisione. Equivale più o meno a scrivere la biografia di un musicista a quattro mani. Con Keith Jarrett per esempio: non ricordo nemmeno quanti dischi abbiamo fatto assieme, però guardando questo insieme a posteriori, penso che abbiamo raggiunto qualcosa di fantastico. La continuità, tutto dipende dalla continuità! È così che possiamo creare cose nuove. Certo, c’è bisogno di contenuti, di materiale. Questo è ciò che mi amareggia oggi. La gente non smette di parlare di tendenze. Oggi questo, domani quello e non c’è spazio per nessun tipo di continuità. E ancor meno per i contenuti... Ma io ho bisogno di sentirmi in armonia con un certo tipo di estetica e con il materiale proposto dal musicista. Faccio dischi perché credo nella musica. E se questa musica diventa un successo, tanto meglio.
L’inizio della tua etichetta coincise con gli anni ‘60 e ‘70 quando politica e cultura, a volte, si mischiavano. Il free jazz politicizzato, i movimenti di dissenso in Occidente...Hanno influenzato il tuo concetto d’arte?
A quei tempi succedeva di tutto, in Germania per esempio, con la Banda Baader-Meinhof. Devo ammettere che quelli erano anni affascinanti. Ma non credo che questa situazione abbia influito sulla mia visione estetica della musica. Fui molto vicino a musicisti come Peter Brötzmann e Peter Kowald, o anche Evan Parker che incise con me durante i primi tempi. Ma non ero troppo interessato a lavorare con la musica improvvisata perché pensavo che questa fosse concepita per essere suonata soprattutto dal vivo. Questa intensità nella sua globalità intesa come una forza... Come si poteva inciderla su nastro? Era praticamente impossibile. Soprattutto con le tecniche di registrazione analogiche molto limitate in quanto a dinamica. Possiamo guardare all’epoca del suono analogico con nostalgia, però oggi abbiamo a disposizione mezzi molto più ampi. Francamente, nonostante la mia coscienza politica, all’epoca non volevo che questa interferisse con la mia visione della musica che, come dicevo prima, è vicina alla musica da camera. Ho sempre preferito l’adagio al presto... E ho sempre avuto una predilezione per la malinconia...
La tua etichetta orientata al jazz aprì rapidamente le sue porte a suoni provenienti da Asia, Africa e altri continenti. Come avvenne quest’apertura?
In tutta naturalezza. Quando ero ancora uno studente di musica, viaggiavo spesso, soprattutto nei paesi dell’Est e in Asia, Albania, China, Africa, etc. Registravo tutto con un Nagra, per esempio un pastore mentre suonava il flauto. Dunque, aprire ECM a questi suoni è stato totalmente naturale per me…
L’evoluzione di ECM è proseguita con la creazione di ECM New Series nel 1984. Qual è stata la ragione di questa seconda etichetta?
È indubbio che non abbiamo bisogno né di scatole né di etichette, l’unica ragione è stata quella di fare distinzione tra le incisioni di musica improvvisata e quelle di musica scritta. Tabula Rasa di Arvo Pärt è stato il primo disco su ECM New Series, anche se già era stato pubblicato Music For 18 Musicians di Steve Reich o opere di Meredith Monk quasi-scritte. Però queste opere di Pärt richiedevano davvero qualcosa di diverso. L’approccio di questa musica era differente.
Questo nuovo approccio ha fatto si che anche il tuo modo di lavorare cambiasse?
Dovetti ritornare allo spartito. Leggere lo spartito come all’inizio. Fu molto interessante, nel 1984, ritornare a tutto ciò. Soprattutto essendo circondato da grandi compositori come György Kurtág, Arvo Pärt, Valentin Silvestrov, Heinz Holliger o Giya Kancheli. Fu fantastico lavorare con loro e permettere che realizzassero la propria musica. Questa disciplina della verità dello spartito e dell’idea compositiva mi appassionava. Provai allora a trasportare questo metodo alla mia ricerca di una certa dinamica, di una certa intonazione, di un certo fraseggio, etc. Questo lavoro mi è servito più tardi, al ritorno con i musicisti jazz, con la musica improvvisata. Particolarmente rispetto all’atmosfera.
L’incontro con la musica di Arvo Pärt ebbe la stessa importanza di “Kind Of Blue”?
Si, fu un vero e proprio shock. Scoprì questa musica attraverso la radio. Stavo guidando sull’autostrada tra Zurigo e Stoccarda a notte fonda. Arrestai l’auto per ascoltarla meglio e guardarmi intorno. Seppi più tardi che si trattava di una registrazione dal vivo di Tabula Rasa realizzata a Talin nel 1977 con Gidon Kremer e Tatiana Gridenko. Si, fu un vero e proprio shock.
Si dice che evocare il “suono ECM” non ti sia gradito...
Non mi da esattamente fastidio, visto che un ascoltatore si renderà conto immediatamente della varietà sonora della nostra etichetta… Questo presunto “suono ECM” o la percezione che certi hanno di esso è, forse, valido per un pugno di dischi. D’altro canto, non mi da fastidio parlare di “concetto ECM” o di “idea ECM”. È vero che preferisco la musica lirica e poetica al presto. Sì, preferisco la musica da camera alla musica orchestrale… Però, francamente, il “suono ECM” è uno stereotipo. Ci preoccupiamo di creare il suono più adatto alla musica. Scolpendo il suono su misura della musica e del musicista. È un lavoro di gruppo, c’è di sicuro affinità rispetto alla chiarezza del suono, luminosità e trasparenza dello stesso. Queste persone parlano spesso di un presunto utilizzo permanente del riverbero nelle nostre incisioni quando, al contrario, sono gli ambienti dove registriamo a possedere questa qualità naturale. E sono questi ambienti che ispirano l’interpretazione del o dei musicisti. Condizionano l’esecuzione. Anche gli strumenti selezionati influiscono con il risultato finale. Quando uso un Reverb Lexicon 480, lo tratto esclusivamente come farei con uno strumento musicale e non come un dispositivo da studio. •